il mio amico siriano

Scritto qualche mese fa:

Da qualche giorno ho un amico siriano. Si chiama F. Cose che possono capitare, prendendo un treno per il “Continente” da una stazione siciliana.
Entrato nello scompartimento del vecchio Intercity, che Trenitalia offre agli isolani come massima espressione di qualità, ho trovato questo ragazzo con aria un po’ stralunata e leggermente preoccupata. Ai miei convenevoli ha risposto pregandomi di parlare in inglese, perché non conosceva l’italiano. Il suo aspetto era curato, i tratti somatici e la carnagione non mi suggerivano risposte precise sul suo Paese di provenienza. Poco male, visto che dopo pochi istanti me l’ha comunicato spontaneamente: “I’m from Siria: Damasco”. Ed è stato abbastanza scioccante, quanto chiarificante, per me, apprenderlo. Avevo di fronte uno cui la Storia era passata addosso con un carro armato. A scanso di equivoci, F. aveva un regolare biglietto a prezzo pieno, ed una coincidenza a Napoli per recarsi a Milano, da dove poi si sarebbe spostato verso il nord Europa dove risiedono dei suoi parenti. Figlio di un generale in pensione, mi ha raccontato della tremenda situazione nel suo Paese. Di Damasco, giornalmente sotto attacco (e difesa). Delle crudeltà richieste ai soldati di Bashar al Assad, e della resistenza anti governativa, composita e, in alcune fazioni, sanguinaria più che mai. Dei tre anni di servizio militare che ha dovuto prestare, cercando di non ammazzare mai nessuno. F. nel suo Paese era benestante, musulmano aperto alla convivenza con le altre culture/religioni, ma pur abitando nella capitale Damasco è dovuto scappare, affrontando un viaggio disperato via Turchia Algeria Tunisia Libia, con meta intermedia l’amatissima Italia. I motivi della sua dolorosa fuga sono banalmente semplici e bisogna ricordarli: in Siria è in atto una guerra civile atroce di cui qui in occidente non ci viene mostrato praticamente nulla.
Tra un rollìo e un beccheggio del nostro treno F. mi ha mostrato, sul suo modernissimo smartphone, immagini di suoi amici giovani e sorridenti, in luoghi molto simili a quelli dove viviamo nelle nostre città occidentali. Subito dopo, un velo di tristezza scendeva sui suoi occhi, e, implacabile, arrivava la spiegazione: “died”, morto o “killed”, ucciso. In questa galleria di vite spezzate, di sorrisi spenti dalla guerra, mi ha fatto visionare anche quella della sua “quasi” fidanzata: “died”, morta. E qualche lacrima silenziosa ha solcato il suo viso adornato da una barba corta e curatissima. Mi ha detto di essere stato trattato benissimo in Italia, e che ritiene di avere un debito col nostro Paese. Non altrettanto in Libia, dove è stato privato del suo bagaglio, con dentro i ricordi della sua vita, e dove invece della nave che tutti si aspettavano sono stati imbarcati su una carretta del mare, e a chi si ribellava era ventilata la minaccia di essere uccisi, seduta stante, in quella terra di nessuno che è Zwara. F. non aveva idea di come avremmo passato lo Stretto di Messina, pensava ci fosse un tunnel o un ponte…quando gli ho spiegato che saremmo entrati col treno dentro al traghetto ha avuto un attimo di disperazione, ricordando l’incubo del Canale di Sicilia che gli ha provocato una giustificabile ritrosia per il mare. Ma devo dire che poi è rimasto piacevolmente sorpreso e molto interessato dal traghettamento ferroviario. Con orgoglio mi ha comunicato che è stato uno dei pochi a denunciare ed identificare gli scafisti del barcone che lo aveva trasportato alle porte della Sicilia. F. è rimasto molto colpito dalla cittadina di Geraci Siculo, sulle Madonie, dove pare sia stato per qualche giorno, mostrando estrema gratitudine e grandi sorrisi al solo ricordarne il nome. Nel mio piccolo, ho cercato di aiutarlo, per quello che potevo, nel proseguimento del suo viaggio, dandogli qualche informazione e anche qualche dritta per collegarsi ad internet: esigenza primaria per gente nella sua condizione. L’ho anche avvertito di stare all’erta per quanto riguardava i suoi beni che potava dentro un piccolissimo zainetto, perché non si sa mai…. Forse questo episodio mi è servito a capire che, in fondo, aiutare il prossimo è un qualcosa di molto più spontaneo di quanto alla fine non si sia portati a credere.  Quando il treno è arrivato a Napoli, F. era un po’ triste dal doversi separare da me, mi ha portato al bar e mi ha fatto assaggiare – amabilmente, a forza – metà del dolce che aveva comprato. Giusto uno che non mi piaceva, ma vabbè…Non vi sto a dire i saluti calorosissimi e commossi, ai confini dell’imbarazzo per un tipo abbastanza freddo come me.
Ho avuto sue notizie poche ore dopo, via social network: la tappa intermedia è stata raggiunta. Adesso è in attesa di continuare la sua vita nel fresco Nord Europa, dove ha un progetto già avviato per lavorare.
Mi auguro che riesca nel suo intento, dimenticando l’orrore della guerra, dei suoi amici e della sua promessa fidanzata “died”, morta; del suo bagaglio di ricordi buttato a mare dagli scafisti; di suo padre rimasto in Siria ( non ho capito se vivo o no), ecc…
Pensare che questa è una delle migliaia di “storie” che settimanalmente sbarcano in Sicilia, con “Mare nostrum”, mi ha fatto riconsiderare le mie perplessità su quella operazione . Certo, ce ne saranno tante altre non così specchiate, pulite e tragicamente belle, di storie. Ma io quella di F. ho conosciuto e testimoniato, per quanto possibile. E mi ha colpito molto. Buona fortuna.

     PS

A F. erano piaciuti di più i treni siciliani, a scompartimenti, rispetto ai Frecciarossa, un po’ angusti. Salvo poi scoprire che su questi ultimi c’era il wifi gratuito, e allora ha cambiato idea.

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